Uno, nessuno e centomila Stefano Di Trapani per folgorare il pop italiano


foto di Sdio Canato

foto di Sdio Canato

di Gabriele Naddeo

La serie di interviste di Talassa dedicata ai professionisti del giornalismo musicale italiano nasce con l’intento di raccontare chi racconta la musica nel nostro Paese. Finora, siamo andati alla scoperta della canzone d’amore italiana con Giulia Cavaliere e a caccia del pop del futuro con Giorgio Valletta. Abbiamo esplorato la black culture con Francesco Abazia, parlato del ruolo dei media con Francesco Raiola e chiesto a Nur Al Habash di presentare Shesaid.so, commentando la nostra ricerca sul problema del gender gap nei festival italiani. Oggi, scopriamo gli angoli bui del pop italiano insieme a Stefano Di Trapani, musicista, autore del libro Si trasforma In Un Razzo missile (Rizzoli Lizards) e della rubrica Italian Folgorati su Vice. È proprio dalla rubrica che parte la chiacchierata con Stefano, o Demented Burrocacao. O Trapcoustic. O Maximilian I. Perché oltre a riportare alla luce gli angoli nascosti della canzone italiana, ne approfittiamo per conoscere meglio uno degli autori più folgorati del giornalismo musicale nostrano. L’intervista con gli uno, nessuno e centomila Stefano Di Trapani si è sviluppata intorno a tre temi principali e alle loro rispettive antitesi: follia vs normalità, nulla vs tutto, social vs asocial. 

FOLLIA / NORMALITÀ

Partiamo da Italian Folgorati, la tua rubrica su Vice. Chi sono gli Italian Folgorati?

In linea di massima sono quei cantanti pop di alta classifica che, loro malgrado, raggiungono il successo. Dico loro malgrado perché poi in realtà sono dei personaggi che hanno voglia di sperimentare, che non sono di questo pianeta: sono degli alieni. Poi il problema è che sono volentieri associati, banalmente, a quelli che sono i loro successi. Tipo, tutti conoscono Vamos A La Playa dei Righeira, ma molti non sanno neanche di cosa parla la canzone. Invece, gli Italian Folgorati sono artisti a 360 gradi e a me è proprio questo aspetto meno approfondito che interessa. È questo voler andare oltre la normalità che li rende “folgorati… sulla via di Damasco”: la loro è quasi una conversione.

Impossibile non pensare a Lucio Dalla, per esempio. Ne parli anche nella tua rubrica, raccontando di “Viaggi Organizzati”, un disco folgorato fin dalla grafica di copertina: è tipo “DAMN.” di Kendrick Lamar, pure col punto, ma trent’anni prima.

Dalla è l’esempio principale di artista che ha fatto sempre quello che cazzo gli pareva. Era completamente pazzo. Qualche giorno fa stavo riguardando il suo live con gli Stadio e Carlo Verdone alla batteria. C’è un momento in cui suonano Acqua e Sapone e Dalla il pianoforte lo prende proprio a manate. A Dalla non gliene fregava nulla del successo e nonostante questo, anzi proprio per questo, è diventato popolare. Perché era in grado di capire quando era il momento di pazziare e quando no e aveva delle tecniche per portare l’attenzione del pubblico dove gli pareva. Lui è uno di quelli che hanno capito, come dicevano i Beatles, che il pop vero implica anche Stockhausen. Non come l’indie pop italiano di oggi che, per quanto molte cose mi piacciono, è abbastanza standardizzato.

A proposito del pop italiano di oggi: chi sono gli Italian Folgorati del 2020?

Direi che non è possibile fare questa mappatura adesso, è ancora troppo presto. Ci vuole forse uno scarto di almeno 15 anni per capire veramente il percorso dei nuovi cantanti del pop italiano. Io sono sempre dell’idea che il percorso di un artista va visto nell’insieme. Detto questo, chiaramente ho i miei punti di riferimento in Italia, tra i giovanissimi. Per esempio, di recente ho intervistato i Misto Mame, un collettivo di Roma che, tra le altre cose, sta anche producendo Pufuleti. Loro sono da tenere d’occhio perché sono innovativi nell’approccio, nel mondo in cui mescolano linguaggi diversi, cosa che secondo me oggi manca ancora molto in Italia. Mi piacciono anche i Wing Klan, pensando alla trap, ma in ogni caso è troppo presto per capire dove andranno questi ragazzi.

Vale lo stesso discorso per Edoardo (Calcutta), che abbiamo prodotto in tempi non sospetti con il suo primo album, “Forse…”. Ora è al terzo ufficiale e direi che tre dischi sono ancora pochi per capire quale strada prenderà, ma lui sicuramente è uno di quei folgorati. Poi un altro che stimo – e che è pazzo come un cavallo – è senza dubbio Gioacchino Turù (o Giacomo Laser). Sono sicuro che tutti loro ci daranno grandi soddisfazioni, ma molte delle cose che fanno adesso saranno riscoperte più avanti. D’altronde, anche “Viaggi Organizzati” – come “1983” – ha fatto storcere il naso a molti quando è uscito. Fu considerato come una prova minore, ma sul lungo termine si è rivelato che Dalla aveva ragionissima. Ecco, tutti quelli che sono un po’ come Dalla e fanno quello che si sentono di fare, senza seguire le mode del momento, saranno sempre riscoperti dopo almeno quindici, vent’anni. È questo il destino dell’Italian Folgorato.

Dalla era sicuramente uno dei più folgorati, ma sapeva bene che l’impresa eccezionale è essere normale, no? Tu che fai nella tua “normalità” a Roma (o dovrei dire Remoria)? Che posti frequenti, dove ti piace andare? 

Io dal 2002 abito in zona Torpignattara. Chiaramente mi sono spostato qui per motivi economici, considerando che gli affitti delle case sono bassi. Però sono originario di Primavalle/Torrevecchia, nella zona nord-ovest della città. Quando sono venuto qui a Torpigna non c’era nulla. Ora collaboro con il Fanfulla e il Trenta Formiche, con il Klang e una volta c’era anche il Del Verme, ora La Fine. In ogni caso, c’è stato sempre un collegamento con la scena di Roma Est e con gli eventi di Borgata Boredom. Questa è la mia Remoria, citando il libro del mio compare Valerio Mattioli: è la periferia che si prende il centro, anzi la periferia è il centro. Si è visto molto anche nei primi giorni del coronavirus: il centro – una specie di scenografia per i turisti – era vuoto, mente la vita si era spostata in periferia. La questione principale della periferia, allora, è che bisogna fare in modo di portarla allo scoperto. Bisogna dare gli strumenti a chiunque voglia esprimersi ma che in qualche modo , forse per insicurezza e per ovvie ragioni di emarginazione,finisce per limitarsi. Qui ci sono un sacco di ragazzi in gamba che suonano, ma per un motivo o per un altro non si mettono in gioco o smettono di fare musica. Sostenerli è importante.

Ah quasi dimenticavo: tra i posti che frequento moltissimo c’è sicuramente l’Hop Corner, una birreria vicino alla chiesa di san Barnaba. L’idea di Droga è nata lì, tra un discorso e una bevuta con Riccardo Papacci. 

NULLA / TUTTO

Ecco parliamo di Droga. Da dove salta fuori il sito? 

Droga nasce dall’idea di dare spazio a tutti quelli che scrivono ma non possono mai dire il cazzo che gli pare. Perché c’è molta censura, autocensura, è tutto brandizzato e allora anche i più bravi si ritrovano a fare cose che non li rappresentano. Anche noi all’inizio avevamo pensato di farci sponsorizzare da qualcuno, tipo Gucci, per poter pagare i collaboratori. Però volevamo una rivista totalmente libera, così abbiamo cambiato presto idea. Ti dico: io quando scrivo su testate grosse sono costantemente censurato, perché se parlo male di questo o quell’altro tema o artista massificato poi levano i soldi alle riviste online. Quindi per evitare di farsi sponsorizzare l’unico modo era di coinvolgere chi voleva scrivere perché sentiva veramente la necessità di farlo. All’inizio in molti erano titubanti e ci chiedevano quale fosse il taglio della rivista. La linea editoriale di Droga è che non c’è una linea editoriale.

Ho letto il tuo articolo di presentazione e mi è sembrato una specie di discorso consapevole sul nulla. Dici che ormai l’informazione è come una droga di cui abbiamo bisogno, a prescindere dalla qualità.  Mi ha fatto pensare alla rubrica su Sanremo 2020 che hai scritto per Esquire, dove parli del festival senza averlo visto. Cento anni dopo il Dada, siamo diventati Dada?

Sì, perché chiaramente il movimento Dada è stato assorbito come tutti gli altri, come il Situazionismo, l’Industrial eccetera. Le controculture sono sempre state colpevoli di aver dato degli input a chi era al potere. È come se a un certo punto tutti questi tentativi venissero riciclati ad ampio spettro dai piani alti. Quindi non è che siamo diventati Dada. È che il Dada è entrato nelle gallerie d’arte e una volta che tu entri nelle gallerie vuol dire che dietro la tua arte c’è una premeditazione. Questa premeditazione è già organizzazione ed è già potere, quindi il potere se ne appropria. Niente invecchia più velocemente dell’avanguardia, diceva quello. Secondo me invece la responsabilità di chi vuole cambiare le cose – in piccolo, sia chiaro – sta nell’evitare di dare dei punti di riferimento ma incitare a trovarseli da sè. In questo senso, il nulla è importante, anzi è la base di tutto. Io mi ritengo un nichilista attivo, perché non mi faccio mai illusioni su nulla, considerando che il nulla non prevede illusioni, a volte anzi ti fa anche degli scherzetti di “pieno”.

Il nulla è importante, però tu fai tutto. Scrivi articoli, hai pubblicato un libro, suoni in diecimila progetti diversi, hai un podcast su Fango Radio, organizzi eventi. Da dove nasce questa spinta a voler fare tutto? 

Il discorso non è complesso, penso sia innato. Più o meno fino a 22 anni, nonostante avessi già diverse emanazioni, mi sono costretto a concentrare le mie energie su un solo progetto. Poi mi sono reso conto che in realtà quello che mi interessava era esprimermi. A me l’identità non interessa, credo che sia un errore e che dentro di noi ci siano talmente tanti fiumi e affluenti che devono venire in superficie. Quindi a un certo punto ho capito che avrei fatto qualsiasi cosa mi fosse venuta in mente. Primo avevo il mito della band: il progetto che in qualche modo racchiude tutto, poi ho pensato che era meglio averne settanta, confondere le idee. Però, appunto, tutto ciò non è premeditato, mi viene naturale: fai talmente tante cose, saturi talmente tanto te stesso che alla fine non ci sei più. Deve sopravvivere quello che fai, mentre tu scompari. Perchè altrimenti è solo sfoggio di ego. Nella mia mente siamo tutti così frastagliati: quindi il mio voler fare tutto è in fondo un voler comunicare con i miei simili.

Quali sono gli ultimi progetti a cui ti sei dedicato?

C’è “Pearl” di Trapcoustic, il mio progetto folktronico – tra folk, elettronica e psichedelia – che è il mio lato un po’ più intimista, diciamo. Infatti talvolta è anche molto imbarazzante da cantare. Poi a breve dovrebbe uscire l’ ultimo album del mio progetto noise rock, i Maximillian I: facciamo questo space rock noise molto pesante, che è l’aspetto con cui sono cresciuto. In realtà non solo con quello, anche con il pop, ma anche con gli spoken word : se penso a “dall’ altra parte “ dei Rokes alla fine capisco perché faccio poesia sonora con gli Acchiappashpirt, dei quali probabilmente uscirà qualcosa a brevissimo. Poi ho pubblicato “The Greatest Nots” con Maurizio Marsico ed è stato un grande onore. Lui è veramente un maestro a 360 gradi e la Monofonic Orchestra è la leggenda della New Wave italiana. Tra l’altro anche lui è uno di quelli che non vuole lasciare traccia, vuole saturare e ha duemila nickname.

SOCIAL / ASOCIAL

Questo voler saturare te stesso, fino a scomparire, come si riflette nei social? Tu che rapporto hai con i social?

Ho un rapporto strano, devo dire. Ultimamente mi annoio parecchio e mi sembra sia cambiato molto il mio approccio al social in generale. Diciamo che il mio rapporto cambia a seconda delle ere. Quindi se prima scrivevo di più, adesso mi interessa farlo di meno, mi interessa parlare il meno possibile: quarantena permettendo, perché ovviamente viene naturale comunicare. Magari anche lanciare frecciatine perché mi diverte rompere il cazzo, perché ci vuole lo scontro per rendere vivo il discorso social. Poi siccome è uno strumento di comunicazione molto legato all’immagine, mi va di scardinare anche quell’aspetto lì: ad esempio su Instagram posto solo foto fuori fuoco. Non sto dicendo che ho la formula magica su come usare i social, sia chiaro, ma so sicuramente cosa non mi va vedere. Come diceva Robert Smith, no? Lui ha fatto i primi pezzi con i Cure perchè non gli piaceva cosa passavano in radio. È la stessa cosa e anche Droga, in fondo, nasce in questo modo. Tra l’altro, sono rimasto molto sorpreso per il gradimento che ha avuto. Poi ci ho riflettuto e ho pensato che in fondo con Droga stiamo aprendo un buco che era lì da troppo tempo e quello che c’era dentro aspettava solo di essere portato alla luce.

Anche Italian Folgorati è nato in questo modo? Tra l’altro mi chiedevo come hai convinto Vice a scrivere di artisti eccezionali, come Flavio Giurato, che però immagino non hanno un grande riscontro social.

Ti dirò: a me hanno chiesto di scrivere su Vice, io non ho mai chiesto un cazzo. All’inizio fu Giorgia Malatrasi a contattarmi: avevo questo blog chiamato Monostressertsonom in cui scrivevo quello che mi pareva: lei l’ha letto e mi ha invitato a collaborare con il sito. La prima volta ho scritto un report di una serata di Borgata Boredom, poi mi hanno proposto di recensire i dischi. Alla fine, ho suggerito la rubrica Italian Folgorati perché cercare di capire gli angoli bui del pop italiano è sempre stata una mia passione. Però non tutte le ciambelle escono col buco. Nel senso: la rubrica è iniziata a livello di articoli e poi si è sviluppata come format video, ma ho avuto difficoltà a riproporre quel formato lì. Perché l’editoria cambia molto velocemente e c’è stato bisogno di andare incontro a certe esigenze manageriali – che non condivido – quindi adesso sto cercando un’altra soluzione per fare i video, ma intanto la rubrica resiste. In generale, se Italian Folgorati interessa e io sono ancora su Vice è perché quelle cose di cui parlo hanno un’aderenza alla novità. Le ritroviamo nel mainstream attuale e me piace molto giocare sulle falle temporali del mainstream. Ad esempio, Guccini è molto più vicino alla trap che un trapper a livello di mood emotivo: è un fatto.

Come si fa allora buon giornalismo musicale nell’era dei social, nonostante i like?

Per fare giornalismo di qualità secondo me non ci si deve pensare giornalisti. Io non mi ci sento, non lo sono, perché sono in prima linea dall’altra parte della barricata. Non parlo di musica per fare sensazione né per essere il giornalista di grido che ha trovato uno scoop o un genere di riferimento. Per me bisogna semplicemente parlare di quello che si sa e soprattutto di quello che si intuisce di sapere, per poi informarsi nel proprio piccolo e portare le proprie passioni agli altri. È come quando vai alla bottega e rubi con gli occhi il mestiere del falegname. Per dirti: quando vado a intervistare qualcuno non mi pongo come il giornalista che deve farsi vedere preparato. Io là sto andando a scuola. Se vado a parlare con Johnson Righeira vado a scuola di musica. Se vado a parlare con Tullio De Piscopo io sto là che pendo dalle sue labbra, non me frega un cazzo di dimostrare chissà che: io vado a scuola, quello è il discorso. Quando sono andato da Peter Hook era come stare all’asilo. Io vado lì per imparare, innanzitutto.