Tonico 70: Americani in terra e’ Saliern


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di Gabriele Naddeo
Illustrazione di Thomas Borrely

Produttore, cratedigger e rapper di esperienza; cultore dell’AKAI MPC, di black music e canzone napoletana, Tonico 70 è una figura essenziale della scena hip hop salernitana, e non solo. Oltre ad aver collaborato con decine di artisti – dallo storico duo con Morfuco al featuring con Francesco di Bella, passando per Speaker Cenzou, Sangue Mostro fino ai Funky Pushertz e al progetto Banda Maje – nel 2017 ha pubblicato il primo album strumentale da solista, “Jet Lag”, frutto dei viaggi a New York e dei podcast a Radio Nuova York, ospite di Polo de La Famiglia. Non potevo parlare di USA senza chiamare in causa Tonico 70, producer e artista che l’America – prima solo immaginata e poi finalmente “conquistata” – l’ha portata fin sotto casa, a Salerno.

Partiamo dal tema del mese, USA, che si collega bene anche con la tua ultima produzione per Morfuco e Shaone: Pulp Fiction. La clip inizia con la spiegazione del termine “old-skool” tratta dal Collins English Dictionary. Perché? Cosa c’è di old-skool in quel brano?

L’idea di cominciare la clip in quel modo è stata soprattutto una scelta del regista, perché alla fine l’unico riferimento old, se così possiamo dire, in quel brano siamo io, Morfuco e Shaone. L’old school è stata la nostra base forte e la nostra formazione, ma sia in quanto a sound che modo di rappare direi che invece in Pulp Fiction è tutto molto innovativo. Morfuco e Shaone, che sono rapper di esperienza, si sono messi alla prova con una base che non era per niente facile: un misto di soul e blues con un ritmo davvero particolare. Per la produzione ho cercato campioni blues molto rari che poi ho fuso con il suono della 808, batteria elettronica tornata in voga dopo 40 anni principalmente con la musica trap. L’idea alla base del nostro progetto, Blues Explosion, era proprio quella: mischiare tutte le carte in tavola, portando suoni lo-fi degli anni Cinquanta e Sessanta con quello che c’è in giro adesso, una cosa che difficilmente ho sentito nei producer italiani. Siamo venuti dall’old-school, ma in realtà siamo tutti artisti in continua evoluzione.

Parlando di evoluzione, secondo te che direzione sta prendendo il rap? Come sta cambiando o cambierà secondo te il modo di produrre?

Ormai il rap è un genere che esiste da 40 anni, che ha una sua storia e che quindi inevitabilmente si è evoluto nel tempo e si sta evolvendo ancora. Il successo commerciale e internazionale coincide con la pubblicazione di Rapper’s Delight della Sugar Hill Gang alla fine del 1979, ma per quanto possa essere un brano importante è un falso storico, nel senso che là si trovò un modo per commercializzare il rap, ma il genere non è certo nato in quel momento. Una tappa importante l’ha poi segnata la trap che è stata una variante in grado di stravolgere il genere e che – tralasciando le hit radiofoniche molto superficiali – ha dato tanto al rap, influenzando molto anche noi producer. Detto questo, secondo me in futuro si mischierà sempre di più il sound classico alle novità. La mia idea è che gli MC torneranno veramente a rappare nello stile dei primissimi tempi, ma su produzioni che mixeranno sempre di più vecchio e nuovo. Penso per esempio a El-P dei Run The Jewels: lui ha preso i suoni tipici degli anni ‘80 portandoli in un contesto moderno, nel 2020. Ecco, secondo me vedremo sempre di più un crossover del genere.

A proposito di fusione di stili e generi diversi, mi interessava molto sapere da te il modo in cui tu e Morfuco vi siete influenzati a vicenda nel tempo. Ormai collaborate da tanto, io vi vedo come una sorta di Madlib e Freddie Gibbs salernitani, tra sample ricercati di soul, blues e funk e scenari gangsta

Il paragone con Freddie Gibbs e Madlib è gentilissimo, ma stai pariando ja, stai scherzando ovviamente. Io e Morfuco ci siamo conosciuti nel ‘96 e abbiamo fondato la crew Cafardo Stile, subito iniziando a suonare insieme. All’inizio rappavamo entrambi, anche se io sono stato sempre interessato al lato della produzione. Su questo, Morfuco mi ha sempre dato carta bianca. Ha massima fiducia nelle mie produzioni e io nelle sue rime. Lui come rapper ha un dono naturale: ha capito perfettamente come giocare con il ritmo, ci fa quello che vuole. È stata proprio questa fiducia reciproca a spingerci a sperimentare, metterci alla prova e farci crescere artisticamente. Dal punto di vista musicale le influenze sono state parecchie: io lavoro in un negozio di dischi, quindi ascolto musica costantemente, ma anche Morfuco è molto dentro il rap, il blues, funk e reggae. Soprattutto, siamo stati anche molto influenzati da ciò che avevamo intorno a Salerno, dai gruppi reggae e dancehall locali come gli Erbapipa e i Paranza Vibes, precursori delle posse salernitane.

Ecco questa è forse la cosa che più apprezzo nella vostra musica: la fascinazione per gli USA, ma declinata in modo molto personale e local.

Io sono un cultore della musica napoletana, dalla canzone classica fino agli artisti degli anni 80, che potremmo idealmente rappresentare con la figura di Nino d’Angelo. Da piccolo sono cresciuto, anche un po’ tra virgolette “forzato” ad ascoltare musica napoletana, considerando che nel mio quartiere si ascoltava solo quello. Nonostante già da adolescente fossi sempre in giro tra locali e centri sociali alla ricerca di una musica diversa, poi comunque quando tornavo nel mio quartiere la realtà era quella lì. Un po’ per forza, un po’ per fortuna, un po’ per piacere e un po’ per dispiacere sono cresciuto con queste canzoni, quindi poi è stato del tutto naturale per me iniziare a campionare partendo da lì. Il primo campionatore me lo presero i miei a 18 anni: gli feci spendere un milione e settecentomila lire e non sapevano nemmeno cosa mi stessero regalando. Ho iniziato campionando la musica napoletana perché avevo solo quella in casa: usavo i dischi di mia mamma, che era una collezionista di vinili e impazziva per Carmelo Zappulla e Nino D’Angelo, i due big dell’epoca. Uno il volto della musica napoletana e l’altro “l’antagonista” siciliano. Così ho cominciato tagliando i sample dai dischi napoletani, che tra l’altro erano produzioni fatte molto bene, considerato che erano comunque dischi che vendevano tanto. Poi con il tempo mi sono appassionato moltissimo al funk, al soul, e agli Stati Uniti in generale, ma quella fascinazione per la musica napoletana è rimasta. Queste influenze si sentono parecchio nella musica mia e di Morfuco, è come se fossimo americani in terra e’ Saliern: abbiamo iniziato contaminando musica locale e America. Un’America, tra l’altro, che non avevamo mai visto di persona, al massimo nei film. Poi per fortuna ho avuto anche modo di visitare New York.

Qual è stato il primo campionatore, quello che ti sei fatto regalare a 18 anni? Poi invece come ti sei appassionato al MPC? Come è cambiato il tuo modo di produrre nel tempo?

Il primo è stato un AKAI S2000, poi quello subito dopo un MPC. Nel 2000 ho preso l’MPC1000, poi sono passato al MPC Renaissance e infine al 2500 Limited Edition, che è quello che uso ancora oggi. All’inizio con l’MPC 1000 per fare un beat ce ne voleva di tempo. Dovevi prima prendere il campione, poi registrarlo, tagliarlo, fare il chopping – ovvero distribuire un certo suono su pad diversi – e per fare questo procedimento avevi già perso mezz’ora, se ti piaceva il campione, altrimenti era tutto da rifare. Con l’MPC Renaissance – che non è standalone, ma si collega al PC con il programma in dotazione – c’è stata un’evoluzione importante. Mentre ascoltavi un brano e lo stavi registrando ti bastava pigiare sui pad e il Renaissance automaticamente ti tagliava il campione, in tempo reale. A questo punto il mio modo di lavorare si è velocizzato all’ennesima potenza. Per dire: se prima producevo un beat al giorno, poi ne facevo anche due, tre. Poi però stavo cominciando a perdere un po’ quella voglia di ricercare davvero un campione. Perché quando il processo è più facile inizi a buttare in mezzo un sacco di roba, senza pensarci troppo, anche cose che poi alla fine non ti piacciono davvero. Nel complesso avrò fatto circa 500 beat, ma forse 450 non mi piacciono. Quindi ho deciso di fare un passo indietro e passare al 2500 Limited Edition, che è sempre un campionatore di nuova generazione AKAI, ma uscito prima del Renaissance. In questo modo ho trovato di nuovo la mia dimensione ideale: produco molto meno, ma sono più soddisfatto. Perché alla fine la cosa bella che ti dà l’esperienza accumulata negli anni non è la produttività, ma la consapevolezza: l’idea di avere già in mente come si vuole tagliare il campione.  

Bello il concetto che hai avuto bisogno di “limitarti” per poi ritrovare la tua dimensione creativa ideale. Che consigli daresti allora a chi inizia a produrre con MPC?

L’MPC è una workstation fatta benissimo, fin dalle prime che misero in commercio. Nel tempo hanno solo cercato di velocizzare i meccanismi di campionamento, come accennavo prima, perché la parte potente dei campionatori AKAI in generale sono i convertitori analogico-digitale: incredibili. Quando ho venduto il mio AKAI S2000, il campionatore in sé valeva poco, qualcosa tipo 100 euro. Dietro però avevo messo i convertitori pagati un sacco di soldi. Un tipo mi diede 700 euro, ma del campionatore non se ne fregava nulla. Mi disse che potevo anche tenermelo, se gli staccavo i convertitori e glieli spedivo. E infatti così ho fatto. Detto questo, a chi inizia a produrre con MPC prima di tutto sconsiglierei di usare i suoni preesistenti della batteria. Magari usarli all’inizio solamente per allenarsi o capire come funziona la macchina. Perché in un primo momento è fondamentale studiare lo strumento, leggere bene il manuale, poi però è importante cercarsi i propri suoni per poter sviluppare uno stile personale. Una volta che hai deciso di produrre musica, oltre ad essere un ascoltatore diventi anche un campionatore umano. Per dirti: io quando sento un pezzo non è che sto là a rifletterci più di tanto. Però poi all’improvviso parte un dettaglio che ti illumina e te lo immagini già come un sample.

Prima mi dicevi che la musica USA è una parte centrale nelle tue produzioni è che alla fine hai avuto la fortuna di vedere New York. Quando ci sei andato?

Ci sono andato per tre anni consecutivi. La prima volta nel 2015 perché, come ti dicevo, volevo finalmente vedere quest’America. Presi una casa a Brooklyn in un posto abbastanza di merda: Canarsie, il quartiere dei Non Phixion. Persino il tassista che mi portò lì la prima volta mi disse che era un postaccio. Io però avevo trovato un mese di affitto a 420 dollari e quindi lo presi. C’era solo una linea della metro, la L, che ci metteva un’ora per arrivare a Manhattan dopo aver percorso tutta Brooklyn. Mentre il primo anno è stato più di esplorazione – ho comprato tonnellate di dischi – la seconda volta che sono stato a New York, nel 2016, ho avuto la fortuna di essere ospite di Polo de La Famiglia (Alberto Cretara, ndr). Polo è un caro amico che mi ha veramente fatto conoscere la New York che cercavo: quella dei party, delle jam, dei locali underground. Sono stato ospite nella sua Radio Nuova York, dando una mano con la parte tecnica e registrando anche delle puntate nei loro podcast: avevo un mio spazio il martedì chiamato Sabotage. In quell’occasione, sono rimasto a New York per due mesi e ho avuto modo di trovare ciò che stavo cercando: i suoni di strada, i concerti nei club piccoli. Ho vissuto molto la città non da turista, insomma.

Un paio di posti o negozi di dischi che ricordi con piacere?

Come locale direi il Subrosa, sempre scoperto grazie a Polo. Andammo lì una sera e c’era una jam della Boot Camp Clik, fu bellissimo. Come negozio invece Academy Records a Greenpoint, che è un pezzetto di Brooklyn: tutto il soul, il funk e il rap di cui hai bisogno sta là, ma in generale dischi di questo tipo ne trovi veramente tantissimi ovunque. Quella negli USA è musica nazionale, anzi nazionalpopolare. Ecco questa è una cosa molto bella del rap a New York: è dentro le famiglie ormai. È come quando qui al Sud fai una festa con i tuoi parenti e metti musica napoletana per farli felici. Là il rap si ascolta tranquillamente in famiglia.

Cosi ti ha colpito della città, al di là degli stereotipi? Cosa hai visto?

Ti dico la verità, mi è piaciuto molto visitare i quartieri popolari. Non ne ho mai avuto paura e non è che ci sono andato di notte, insomma. Ho visto una bella parte del Bronx, passando per le sue tantissime palazzine. È un’area che sta cambiando molto, ci sono zone che stanno diventando abbastanza esclusive, ma nel complesso resta un quartiere popolare e soprattutto super popolato: è pieno di gente in mezzo alla strada, bancarelle… Al Bronx tra l’altro c’è anche la nuova Little Italy, ad Arthur Avenue: è stranissimo vedere all’improvviso tutte le insegne dei negozi in italiano. A Brooklyn, invece, sono stato al murale commemorativo di Sean Price. È a Brownsville, una parte tendenzialmente afroamericana. Appena sono arrivato lì ho parlato con dei ragazzi gentilissimi, comunicando con quel poco di inglese che conosco, e mi ci hanno accompagnato loro al murale.

Tu sei un amante della black music a 360 gradi e “Jet Lag”, il tuo primo disco strumentale da solista, ha un sound completamente diverso da quello dei pezzi con Morfuco. Cosa ti ha ispirato in questo caso?

È stato pensato dal 2015 – quando sono stato per la prima volta a NYC – al 2016, quando ho lavorato a Radio Nuova York. In quell’occasione, ho portato anche il campionatore in valigia. Così, prima che iniziasse il mio programma, passavo un attimo per un negozio di dischi lì vicino, compravo tre o quattro album a 10, 20 dollari massimo, risalivo in radio, li campionavo e facevo il beat. “Jet Lag” nasce così, con i campioni presi a volo dal negozio, portati sopra in radio e campionati. Devo dire che ci sono dei pezzi che non mi convincono nell’album, buttati in mezzo perché facevano parte di questo concetto preciso e non mi andava di escluderli dato che sono venuti fuori in quel momento là. C’è veramente di tutto in “Jet Lag”: gospel, elettronica, soul, jazz, tutto quello che ho visto e ascoltato a New York.

“Jet Lag” è stato anche il ponte per uno degli ultimi progetti in cui sei coinvolto, Banda Maje. Per certi versi ci ho visto delle somiglianze con la californiana Freestyle Fellowship, anche se il vostro sound punta più al funk che al jazz. Mi racconti di quest’ultima collaborazione?

Il creatore di Banda Maje è Peppe Maiellano, bravissimo pianista salernitano, appassionato di musica anni 70 e 80, oltre che di cinema italiano. Aveva in mente un nuovo album strumentale funk dai suoni molto mediterranei e voleva una mia supervisione. Allora l’ho cominciato a bombardare di dischi, poi abbiamo lavorato insieme: lui ha scritto tutta la musica e io l’ho indirizzato. Alla fine abbiamo anche arrangiato un pezzo in cui io rappo. All’interno di Band Maje c’è gente che viene dal rock, dal jazz, dall’afro…e tutti loro sono pazzi per il rap. Questo per dire che sì, i generi devono avere il loro bel nome, però poi alla fine il crossover e quello che fa vincere. In questo momento se dovessi rappresentarmi come rapper, come MC, immaginerei proprio una situazione del genere: con una band, per cercare di far suonare le mie idee.

Dalla California alla “Salifornia”, come diciamo noi – mi racconti di The Square Salerno?

The Square è un laboratorio nato cinque anni fa da un’idea di Daniele Plaitano e Fabio Campagna che hanno iniziato a coordinare laboratori all’interno della cultura hip hop. Quelli più fattibili per una questione di praticità erano uno di rap e uno di break dance. È veramente una bellissima esperienza. Io dico sempre che non esiste la scuola del rap e della break dance: sono arti che nascono in strada. Quindi noi non insegniamo: motiviamo. A chi viene al mio laboratorio io non dico come rappare, ma spiego come ragionare come con il campionatore. Spiego il rap, la sua storia e il suo percorso, perché sono cose che si devono conoscere. Poi se le si vuole usare o meno è una cosa personale che a me non interessa nemmeno. The Square è una piazza, come dice il nome del progetto: ci vediamo e ci confrontiamo, innanzitutto. È un bel posto che tra l’altro ha dato vita a nuove crew, come gli HWM o Le Zetas, progetto di due ragazze che seguo personalmente.

Lavori da Disclan, il negozio di dischi più amato d’Italia, citando un sondaggio del 2013 di Rolling Stone. Quali sono le uscite che hai apprezzato di più ultimamente?

Mario Maysse di Disclan è un guru dei dischi, una persona veramente competente. Quello poi a cui non arriva lui, cerco di coprirlo io. Il mio supporto è stato portare la black music all’interno del negozio, i generi che seguo io insomma. Ascolto molta musica proveniente dall’America, ma un disco che mi ha colpito molto ultimamente è “Keleketla!” dei Coldcut, producer storici, che unisce il Sudafrica al Regno Unito. Hanno creato un mega collettivo, incontro di afro, house, tribale, funky: veramente spettacolare. Poi un’etichetta che seguo molto è la Colemine Records con i suoi gruppi di punta, ovvero Black Pumas e Monophonics, band fondatrice dell’etichetta. Hanno questo sound pazzesco che veramente ci riporta agli anni 70. Mi piace molto anche la Big Crown Records degli El Michel Affairs. Il loro “Enter the 37th Chamber” è fenomenale: hanno risuonato tutti i brani dei Wu-Tang Clan strumentali, basta dire questo.