Luca Roncoroni: Il grande passo della NBA


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di Alvise Danesin
Illustrazione di Thomas Borrely

Luca Roncoroni vive a Bergamo ed è scrittore, giornalista, giocatore e allenatore di basket. Dal 2018 ad oggi ha pubblicato tre libri, oltre ad un’infinità di articoli, recensioni, interviste e approfondimenti. Durante le ultime ore di spoglio per le presidenziali USA mi ha raccontato il suo punto di vista sulle elezioni, sulla presa di posizione politica nello sport e nella musica e delle sue passioni per hip hop e scrittura.

Partiamo dal tema forse più attuale: le elezioni americane. Mi daresti un tuo commento sullo sviluppo delle elezioni? Considerato che noi stiamo parlando durante lo spoglio, ma che questa intervista uscirà tra qualche settimana, come pensi porterà una riconferma di Trump o l’elezione di Biden?

Il mio commento ovviamente non può prescindere dai risultati delle ultime ore, che vedono Biden in vantaggio. Penso che l’eventuale vittoria di Biden sia comunque una mezza vittoria: nonostante tutti abbiamo avuto sotto gli occhi come l’amministrazione degli ultimi 4 anni sia stata disastrosa e come nell’ultimo periodo sia stata gestita male la pandemia negli Stati Uniti, quasi mezza America ha votato nuovamente Trump. Questo, a mio avviso, è sintomo di qualcosa che non va e per cui si possono trovare spiegazioni diverse. Molti elettori repubblicani probabilmente sono rimasti legati all’andamento economico positivo pre-pandemia, attribuendo a Trump il merito di quella crescita e permettendogli di utilizzare la pandemia come alibi per giustificare la cattiva amministrazione presidenziale. L’altra questione importante è il voto degli afroamericani e delle altre minoranze, che nelle ultime elezioni sono stati l’ago della bilancia. Molto spesso si tende a dare per scontato che gli appartenenti a queste categorie votino Democratico, quando invece non è per niente scontato.

Giusto qualche giorno fa ho condiviso sul mio profilo un articolo molto interessante, nel quale un giornalista americano prova ad analizzare in maniera approfondita questo fenomeno. Nell’articolo si sottolinea appunto come non sia ovvio che le minoranze facciano fronte comune: un nero che vota Trump non sta votando contro la sua etnia, ma sta votando, per esempio, contro altre minoranze che magari è nel suo interesse che vengano penalizzate. Allo stesso modo un sudamericano emigrato regolarmente negli Stati Uniti può volere che gli immigrati irregolari siano fermati e rimandati a casa. Ed è proprio quello che sta succedendo, anche nel mondo della musica e dello sport. Chiaro è che se un Kendrick Lamar si schiera a favore dei Democratici non fa praticamente notizia, perché scontato, mentre un Kanye West che si espone a favore di Trump ha in qualche modo legittimato tutta una serie di elettori che sarebbero sulla carta democratici, ma che di fatto votano repubblicano. 

Cosa ti aspetteresti quindi che cambi nel caso dovesse vincere Biden?

Questa è una bella domanda. Innanzitutto la vittoria di Biden non è in sé una vittoria, ma per essere tale dovrebbe portare a delle riforme che risanino almeno in parte la situazione che si è venuta a creare in questi anni, ad iniziare dallo smantellamento dell’ObamaCare. È vero che sul piano concreto l’amministrazione Obama ha fatto poco, ma se gli Stati Uniti erano riusciti a fare anche un solo passo avanti, ora se ne sono fatti cinque indietro. Bisogna quindi ripartire, e non dal programma di Obama del 2008 o del 2012, ma da un programma adeguato alla situazione attuale.


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Parlando delle elezioni e di uno degli artisti che più hai approfondito, pensi che le ultime uscite di Kanye West sulla sua candidatura siano sempre un’ “auto-promozione”, come scrivesti nel 2018? Alla fine ha accumulato circa 60mila voti.

Prima di tutto il fatto che abbia preso 60mila voti, che ai fini di una realistica candidatura sono nulla, rendono un pochino la misura del fatto che in America ci siano 60mila persone che sono andate all’urna e hanno imbucato la letterina con la croce su Kanye West. Non dobbiamo stupirci se Trump continua ad essere votato. Come ho scritto nel mio primo libro (Hip pop. Metamorfosi e successo di beat e rime, Arcana Edizioni, 2018, ndr), dove parlavo di Kanye e della sua candidatura del 2016, il legame tra il cantante e Trump è sempre stato abbastanza simbolico e speculare: Kanye guarda Trump e vede se stesso allo specchio. Entrambi non professionisti della politica, ma imprenditori e personaggi esagerati. Ha probabilmente pensato “se può farlo lui, posso farlo anche io”. Quello che comunque si nota è che le sue mosse sono state molto velleitarie o comunque che il suo obiettivo era quello di sondare il terreno, più che candidarsi seriamente. Non possiamo sapere se nel 2024 si ricandiderà. Kanye è sempre stato insondabile nelle sue mosse, sia a livello artistico che a livello di marketing: capisci solo dopo anni dove voleva andare a parare. Per esempio, un disco come “The Life Of Pablo”, lo inquadri molto meglio adesso rispetto a quando è uscito. Penso sia un artista che va vissuto a posteriori. Questo cammino politico sinceramente non saprei dove possa portarlo. Vedremo.

Portando invece il discorso sulla musica, come credi che si evolverà lo stile di Kanye?

Attualmente non ho proprio nessuna idea di dove possa andare a parare. Come ho detto, Kanye è sempre stato imprevedibile. Se guardiamo alle ultime produzioni direi però che il percorso è stato un po’ a ritroso: se fino a “Yeezus”, ma anche con “The Life Of Pablo”, ha guardato in avanti anticipando quelli che sarebbero poi stati i trand nella musica hip hop e mainstream in generale, negli anni a seguire non è stato così. Con “Yeezus” ha portato tutto quel calderone di musica elettronica bianca, industrial e noise, un misto tra Aphex Twin e Autechre; in “The Life Of Pablo” ha unito il rap al gospel. Tutte cose che poi si sarebbero affermate negli anni seguenti. Non ha inventato nulla, come nei dischi precedenti, ma è stato il primo che ha portato alla luce delle cose che fino a prima erano considerate di nicchia. Negli ultimi dischi, invece, che fossero suoi o prodotti per altri, pare abbia rivolto lo sguardo verso il passato e sia tornato a pensare all’hip hop come all’arte del campionamento, all’R&B e alla Motown degli anni d’oro, quasi un ritorno a “The College Dropout”. Come se anche lui si fosse fatto tirare dentro da questa nostalgia dilagante che imperversa nella musica, come nel cinema e nelle serie tv. Da chi ha sempre guardato in avanti – ripeto, senza inventare niente, ma portando in auge generi sotterranei – mi sarei aspettato comunque altro. Non so dove volgerà lo sguardo in futuro. Staremo a vedere.

Negli USA ci sono artisti che si espongono politicamente in maniera forte e sincera. Mi sembra che queste prese di posizione in Italia siano ultimamente sempre più soft.

Per quanto riguarda l’hip hop, dove io riesco meglio ad avere uno sguardo critico conoscendo bene la scena, ti posso dire che in Italia è sempre stato abbastanza stereotipato. Agli inizi era legato alle logiche dei centri sociali, quindi visto come una cosa molto di sinistra. Dalla fine degli anni ’90 e con l’arrivo progressivo al mainstream, sulla scia di quello che avveniva anche nel resto del mondo, l’hip hop ha interrotto questo legame politico. Sono rimasti i vecchi alfieri della scena: Assalti Frontali, Colle der Fomento, eccetera, però in classifica è rimasto ben poco di politicizzato. 

Il tuo ultimo libro è dedicato a Willie Peyote (Willie Peyote. Basta Etichette, Arcana Edizioni, 2020, ndr), uno che invece mi pare non si faccia molti problemi ad esporsi.

Sicuramente lui è un artista schierato, ben identificabile politicamente, ma se all’inizio si proponeva come artista “duro e puro”, poi si è molto ammorbidito e concesso alle sirene della hit radiofonica. La critica che gli si può fare è dal punto di vista musicale, più che di schieramento. Nel libro che ho scritto sono stato molto critico in diversi passaggi. Non tutto quello che ha fatto, che sia musicale o politico, mi piace. Nel libro cerco di spiegare bene questa sua ambiguità che lo contraddistingue. Lui è sempre stato uno abbastanza di sinistra, ha fatto diversi pezzi dove prendeva per il culo anche il Movimento 5 Stelle, per dire, però è sempre appartenuto a quella sinistra che in questi anni non funziona. Per farti un esempio, un personaggio che vorrebbe esporsi e professare gli ideali di sinistra, non va poi nel “salotto buono” di Fazio, oppure non inserisce nella sua canzone più “di sinistra”, Io non sono razzista ma…, degli stereotipi da bar per rispondere ad altri stereotipi e altre semplificazioni. Penso che come Willie non vedo altri che siano una vera alternativa per poter proporre un’idea e una politicizzazione nel senso stretto del termine.
Una volta raggiunti certi numeri e una certa esposizione avrebbe potuto utilizzarla in maniera un pochino più intelligente, invece che andare da Fazio con la camicetta a fiori. 

Secondo te come mai chi fa grandi numeri non è mai così esposto nel nostro Paese?

Banalmente perché quando ti esponi politicamente ti fai dei nemici e perdi ascoltatori. È una scelta di comodo, anche se non sempre la scelta è degli artisti. Dietro all’artista c’è sempre una macchina produttiva che lavora e che è giusto che lavori. Sicuramente in Italia manca un Kendrick Lamar: qualcuno che faccia un disco che rappresenti un momento storico, con quella forza. 


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Oltre alla musica, anche il mondo dello sport negli USA si è esposto su temi importanti. Lo abbiamo visto in NBA con le dichiarazioni sulle proteste di Hong Kong, le scritte sulle canotte e lo sciopero dei giocatori per solidarietà al movimento Black Lives Matter. Cosa ne pensi dell’incontro tra sport e politica?

Io sono assolutamente a favore. Mi capita tante volte di vedere nei commenti sotto a post di pagine che parlano di basket come La Giornata Tipo o Overtime – che sono politicamente esposte e quindi prendono una posizione chiara davanti a certi fenomeni – commenti del tipo: “che pensassero a giocare”, rivolti ai giocatori. L’NBA ha avuto il coraggio di fare quello che da noi manca anche a livello musicale: esporsi e prendersi la responsabilità dei rischi, anche commerciali. Questa sovraesposizione – che non era esplicitamente schierata perché il messaggio principale era “vota!”, ma era palese cosa stessero chiedendo di votare – è stato un boomerang a livello commerciale: gli ascolti sono calati e molte persone hanno smesso di guardarla.  Ancora una volta Trump ha preso la palla al balzo e non ha perso l’occasione per sottolineare come siano state le finali meno viste negli ultimi anni. Erano sicuramente consapevoli di quello a cui sarebbero andati incontro, ma è stato comunque un gesto forte. A mio avviso, è stato un primo passo importante, e la NBA è stata l’unica lega ad esporsi così tanto.

Pensi che si riuscirà mai ad avere in Italia una presa di posizione così forte da parte di giocatori, società e lega?

La speranza è sicuramente quella, ma la vedo dura. Sia a livello di organizzazione dello sport, sia a livello di cultura politica siamo abbastanza indietro rispetto agli USA che comunque, non dimentichiamoci, hanno tante altre lacune. La speranza è comunque che si vada in quella direzione.


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Hai scritto un libro su uno dei maggiori interrogativi che il mondo dello sport possa porsi: il “What if”, il cosa sarebbe successo se… (What if. Racconti di basket e talenti perduti, Ultra, 2019, ndr). Tornando alla musica, quale sarebbe secondo te il più grande “What if” in questo caso?

Domanda tosta. Il più grande “What If” secondo me rigurda Kanye e la sua salute mentale. Negli ultimi anni sembra che il suo lato più sconclusionato abbia fagocitato quello che era il suo lato più geniale. Quindi la domanda che mi pongo è: cosa sarebbe successo se fosse stato un po’ meno squilibrato? Poi ci sarebbero i grandi dell’hip hop scomparsi troppo presto come Tupac e Notorious Big. Anche negli ultimi anni abbiamo avuto molti lutti come Nipsey Hussle, piuttosto che Pop Smoke o MacMiller. Un’altro “What if” personale, perché sono una mia chicca, è: “cosa sarebbe successo se Ameer Vann fosse rimasto nei Brockhampton?”. Loro secondo me sono una delle cose più interessanti successe nell’hip hop americano negli ultimi anni e da quando Ameer Vann se n’è andato sono calati molto. Una bella domanda questa che potrebbe essere l’input per un nuovo libro.

Se invece parliamo di artisti che hanno fatto un capolavoro e non sono riusciti più a replicarsi direi sicuramente Snoop Dog. “Doggy Style”, il suo primo disco, era una vera bomba e i successivi non sono neanche lontanamente equiparabili. Stessa cosa per Nas, ha fatto bei dischi, ma nessuno è stato all’altezza di “Illmatic”.

Il mondo della musica sta affrontando una crisi durissima durante la pandemia. Gli artisti non possono esibirsi e tutta la macchina degli spettacoli dal vivo è completamente ferma. Come vedi la situazione generale dell’industria dell’intrattenimento in questo momento? 

Purtroppo, se vogliamo essere sinceri, devo dire che è veramente dura. Molti dei miei conoscenti lavorano nel mondo dello spettacolo, a più livelli: promoter, manager, organizzatori di eventi o anche semplicemente persone che lavorano in locali che ospitano i live, e ad oggi la situazione è molto tragica. Si è speso una buona parte dell’anno per adeguarsi a dei protocolli che ora non hanno più nessun valore. Questo poi è un aspetto che riguarda anche il mondo dello sport. Sicuramente non sono gli unici settori colpiti dalle restrizioni, ma questi sono quelli che mi riguardano più da vicino. La mia opinione personale è che si poteva chiudere qualsiasi cosa, però i cinema, i teatri e gli allenamenti sportivi sono luoghi e momenti tra i più regolamentati e probabilmente sicuri. È un periodo decisamente frustrante.

Pensi si possa tornare presto a quella che chiamavamo “normalità”?

Normalità come la intendevamo penso non nel prossimo futuro, ma basterebbe poter tornare anche solo alla situazione di quest’estate per poter respirare. 

Parliamo di te: hai scritto tantissimo e continui a farlo. Ti occupi di musica, tra recensioni, interviste e approfondimenti; sport: alleni, giochi e scrivi di sport; politica: scrivi per la rubrica Eppen dell’Eco di Bergamo e ultimamente hai intervistato personalità molto importanti. Da dove nascono queste tue passioni?

Le mie passioni principali, basket e musica, vengono entrambe da mio padre. Era giocatore di basket e fin da piccolo mi ha trasmesso la sua passione per questo sport così come per la musica, il cinema e qualsiasi forma di intrattenimento culturale. Ho sempre vissuto in una casa piena di libri, in cui si vedevano tanti film e si prendevano riviste e magazine. Guardando indietro devo dire comunque che a scuola ero molto portato per l’italiano e nei temi son sempre andato bene. Le mie professoresse mi hanno sempre incoraggiato a coltivare questa cosa.

Poi unire le cose è stato abbastanza spontaneo, quindi ho cominciato a scrivere di musica e di quello che mi interessava. Ad un certo punto ho iniziato a propormi a varie webzine e da lì è nata la collaborazione con Sentireascoltare. Nel giro di qualche mese son diventato redattore e attualmente la posso definire la mia casa principale. Da lì è seguito il resto, e più scrivi e più hai occasione di scrivere e di ampliare i tuoi contatti professionali. Attualmente collaboro con tre portali, sto scrivendo un altro libro e lavoro come allenatore e istruttore di basket.

Qualche anticipazione sul prossimo libro?

Il prossimo libro sarà un romanzo. Faccio questo annuncio in anteprima, non lo sa quasi nessuno. Sto buttando giù qualche idea e vediamo come si evolverà e se vedrà mai la luce. La fiction è totalmente un altro mondo, io ho sempre scritto commentando e dicendo le mie idee su cose già esistenti. Sarà un’esperienza nuova.

Ti occupi spesso anche di artisti emergenti, soprattutto promuovi giovani musicisti della tua zona, Bergamo. Mi racconti come ti muovi per promuovere la musica locale?

Lo strumento con cui mi occupo di promuovere la musica locale è Eppen, portale culturale dell’Eco di Bergamo. Ci concentriamo principalmente sulla dimensione live e quando c’è un artista che fa un concerto in zona scriviamo un articolo di approfondimento o un’intervista. A Bergamo non c’è una vera e propria scena, ma ci sono tanti artisti meritevoli di essere portati alla luce. Ovviamente la situazione attuale non permette di esibirsi e quindi cerco di portare delle mie proposte. Se posso farti due nomi di artisti locali che secondo me meritano sono U-max, uscito con un bel mixtape qualche mese fa, e Tizle, che ha pubblicato il suo ultimo disco prodotto da Mate Koss qualche settimana fa. 

Questa impossibilità di poter suonare insieme e di esibirsi dal vivo secondo te influirà negativamente su una possibile nuova generazione di musicisti?

La lettura ottimistica che voglio dare è quella che, avendo molto più tempo a disposizione, la gente abbia anche più tempo per provare a fare cose nuove. Tutta la macchina produttiva per poter poi lanciare queste cose nuove sarà probabilmente arrugginita, ma può essere che con il tempo ci sia di nuovo spazio e speriamo che la situazione sia motivo di spinta per poter creare qualcosa al riguardo. 

Lo scorso mese abbiamo intervistato Any Other e le è stata posta una domanda che mi piacerebbe ora girare anche a te. In quanto giornalista e critico musicale, sei mai stato influenzato da un tuo possibile lettore? 

Ovviamente quando si scrive di un disco tendenzialmente hai in mente il pubblico che potrebbe essere interessato a quel genere musicale e che di conseguenza potrebbe essere interessato a leggere la recensione, quindi adotti un gergo che presumi possa essere capito da chi legge. Per esempio, se parlo di sample nella recensione di un disco hip hop, posso dare per scontato che chi legge sappia cosa sia.

A livello di contenuto invece provo a scrivere quello che penso e ad inquadrare il disco nella sua dimensione più generale. A me dà fastidio quella critica accondiscendente che si legge su tante webzine, dove è sempre tutto bello e i dischi vengono tutti recensiti bene perché così vuole il comune sentire. Si può non essere d’accordo con quello che scrivo, ma a me piace dire quello che penso, nel mio piccolo.

Che consiglio daresti a chi comincia a dedicarsi alla scrittura o al giornalismo?

Primo: crea un tuo parterre di firme che leggi e che apprezzi, su cui poter fare riferimento. Non per copiare, ma da prendere come modelli. Io ho quei quattro, cinque scrittori, non per forza critici musicali, che studio a fondo per imparare e migliorare. Secondo: scrivi scrivi scrivi. Più scrivi e più diventerai uno scrittore migliore. Come tutte le cose, anche la scrittura ha bisogno di essere esercitata e allenata. Terzo: fatti leggere da persone di cui ti fidi. Ho fatto leggere tutti i miei libri innanzitutto alla mia compagna, perché quando si scrive c’è sempre il dubbio che quello che avevi in testa non sia venuto fuori nella maniera migliore, soprattutto se chi legge non ha già in mente il tuo stesso ragionamento. Ultimo: leggi di brutto. Libri, articoli, interviste, tutto. Io appena ne ho l’occasione leggo tutto quello che mi capita sotto mano, anche l’elenco del telefono va bene.