Ercole Gentile: L’anno che cambiò la musica dal vivo


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di Gabriele Naddeo
llustrazione di Thomas Borrely

Nel tentativo di comprendere il reale impatto che la pandemia di COVID-19 ha avuto, sta avendo e avrà nelle nostre vite, gli studi, le analisi e i report si stanno moltiplicando. Sono senz’altro previsioni destinate a essere riviste in continuazione, ma già dai dati disponibili è chiaro come alcuni settori dell’economia siano stati colpiti più duramente di altri dall’emergenza sanitaria, con effetti tangibili e immediati. Pensiamo alla live music industry, paralizzata durante il lockdown e pesantemente ridimensionata negli ultimi mesi, tra club che hanno chiuso, concerti e festival che sono stati cancellati o rimandati. A marzo, per esempio, Assomusica stimava una perdita di circa 350 milioni di euro a fine stagione estiva per la musica dal vivo in Italia. Settore che – solo considerando gli eventi di musica pop contemporanea – dà lavoro a circa 60 mila persone e che, come il lockdown ha messo in evidenza, ha un gran bisogno di essere riorganizzato, date le scarsissime tutele previste per i lavoratori di questo comparto. Abbiamo allora chiesto ad Ercole Gentile – che organizza concerti da anni sia in Italia che in Germania, dove vive e lavora – di fare un punto sulla situazione, cercando di capire cosa cambierà nel breve termine, cosa non va in questo settore e cosa potrebbe (o dovrebbe) essere fatto per ripartire al meglio. Così come per l’intervista ad Emiliano Ponzi, si è poi discusso con Ercole del tema del mese, Metropoli, scoprendo le luci e ombre di Berlino, dove si è trasferito ormai da dieci anni e che, nonostante gli affitti alti e la gentrification, resta una delle città più vivibili d’Europa.

Sei Production Manager e Booking Agent per la booking agency Von der Haardt, di base a Berlino. Raccontami la tua giornata tipo: di cosa ti occupi precisamente, in cosa consiste il tuo lavoro?

La booking agency è fondamentalmente un’agenzia che si occupa di organizzare tour per gli artisti del proprio roster, grazie a una serie di agenti, appunto, che si occupano di chiudere le date. Il Booking Agent è la persona che, grazie ai propri contatti o contatti dell’agenzia, cerca di mettere in piedi un tour per i propri artisti. Per esempio, se un artista pubblica un nuovo disco e ha in mente di fare un tour in Europa a maggio 2021, allora Il Booking Agent cerca innanzitutto di costruire le tappe fondamentali del tour. Poi si occupa di trovare e inserire altre date in modo da creare un itinerario che sia sostenibile.

D’altra parte, il Production Manager cura tutta la parte di produzione e logistica: prende contatti con l’organizzatore del concerto e crea un itinerario per l’artista il più dettagliato possibile. Per dire: un artista ha in programma una data a Berlino e il giorno dopo una ad Atene? Il Production Manager avrà il compito di trovare il volo con gli orari giusti, mandare una scaletta all’artista con il programma della giornata, accertarsi che tutti gli strumenti che vengono richiesti siano a posto eccetera. Nel complesso: si assicura che tutto sia al posto giusto in vista della data.

Mi interessa l’aspetto del Booking Agent che lavora con i propri contatti, oltre a quelli dell’agenzia. Come è stato per te? Come hai sviluppato contatti in quest’ambito e come sei arrivato a questo settore?

Lavoro da tanti anni, circa 15, nel mondo della musica. Ho iniziato come giornalista musicale, scrivendo per varie testate italiane, poi ho aperto un mio ufficio stampa e alla fine ho iniziato a lavorare come organizzatore di concerti. Tutto questo sia in Italia che qui in Germania, dove organizzo date a Berlino per artisti italiani. In questo modo ho accumulato nel tempo parecchi contatti nel settore. Con Von der Haardt ci sono entrato in contatto grazie a Federico Albanese, artista con cui lavoro dal 2016 come Tour Manager, una via di mezzo tra un Production Manager e un assistente dell’artista, considerando che il Tour Manager viaggia con l’artista in tour. Lui era nel roster dell’agenzia e tramite Federico sono entrato in contatto con il proprietario di Von der Haardt, Ralf Diemert. Avevo voglia di chiudere con alcune attività in Italia e di concentrarmi di più su Berlino.

Come è cambiata la tua giornata tipo in tempo di pandemia? Soprattutto, come pensi che cambierà il settore dei live durante l’emergenza sanitaria, nei limiti che possiamo prevedere? Vedremo molti più artisti solisti, band in formato ridotto e concerti acustici?

Per il momento faccio tutto da casa, ma il carico di lavoro rispetto a prima è chiaramente pochissimo: qualche oretta al giorno, ma poca roba ecco. Mi ritengo comunque fortunato, perché grazie al contratto sono tutelato: al momento sono in kurzarbeit, che corrisponde alla nostra cassa integrazione. Poi dall’estate con l’agenzia abbiamo ricominciato a fare piccole cose: qualche concertino all’aperto, soprattutto con pianisti e musica ambient. Il futuro? A queste condizioni, ti dico la verità, io non vedo un grande futuro, non è una situazione sostenibile. O arrivano degli aiuti veramente grossi per chi fa questo lavoro oppure a queste condizioni è tutto molto complicato. Ti dico solo che i tour dei nostri artisti più grossi li abbiamo spostati all’autunno 2021, perchè comunque mettere duemila persone in un posto solo adesso è difficile. Spero che, come periodo di transizione, si riesca a fare qualcosa in più almeno questo autunno, anche set ridotti magari. Qualcosa forse dovremmo riuscirla a fare con Manu Delago, percussionista austriaco. Su sei date siamo riusciti a mantenerne cinque e in quel caso, per esempio, ci saranno doppi show: uno alle 19 e uno alle 22 nell’arco della stessa giornata. Queste però possono essere delle soluzioni temporanee, sul lungo periodo non è fattibile. 

In che modo la Germania ha supportato durante il lockdown e sta supportando adesso gli artisti e il settore dello spettacolo? 

Qui in Germania qualunque libero professionista poteva fare richiesta ad aprile per ricevere un  fondo perduto di 5000 euro, che poi è stato erogato tipo in tre giorni. Come fondo di emergenza quello è stato una manna per tutti. Poi è stato erogato un altro contributo di 9000 euro, ma solo per coprire le spese legate all’attività. In quel caso lì per i musicisti diventava complicato riceverlo, a meno che non avevano uno studio in affitto di cui pagare le spese o cose del genere. Poi è stato fatto un provvedimento chiamato Neustart Kultur da un miliardo di euro dedicato anche quello ad artisti, agenzie, teatro. Un miliardo per tutto il settore culturale, insomma. Quest’estate però c’è stata una manifestazione degli artisti per chiedere di nuovo un aiuto, perché i soldi del primo contributo sono quasi finiti e adesso non c’è ancora un piano chiaro su come ripartire.

Invece stai seguendo in Italia le attività de La Musica che gira? Che ne pensi e come pensi che la situazione nel nostro Paese dovrebbe evolversi dal punto di vista legale per i lavoratori del mondo dello spettacolo?

In Italia c’è un bisogno enorme di una riforma di questo settore: troppi lavoratori non sono tutelati. Perché aprire una partita IVA in Italia ha dei costi molto alti e quindi, specialmente nel caso delle piccole realtà, alcuni preferiscono fare le cose non alla luce del sole e questo comporta che se c’è un’emergenza di questo tipo tu per lo Stato non esisti. 

In questo senso, La musica che gira è un bel movimento che si è attivato per spingere lo Stato a riorganizzare il settore dal punto di vista legislativo. Io poi faccio parte di questa associazione che si chiama Italian Music Festivals e con La musica che gira abbiamo un dialogo aperto. Anche noi abbiamo aderito alla loro iniziativa, ma come singoli, non come associazione. In più, con IMF abbiamo formulato anche un’altra proposta, ovvero creare delle Music Commissions – sulla falsariga delle Film Commissions – a cui affidare il compito di gestire i fondi regionali. Le Commissions, come le abbiamo immaginate, dovrebbero essere formate da professionisti del campo, in modo tale da gestire al meglio la destinazione di bandi e di fondi, considerando che hanno una visione più ampia del settore e una conoscenza del territorio sicuramente migliore.

Nel complesso, credo che ci sia un bisogno urgente di far qualcosa in Italia, perché se tante attività non riaprono a breve, non so quante poi arrivano al 2021 se non vengono aiutate come si deve. Promoter indipendenti, club…come fanno senza guadagnare per otto, nove, dieci mesi? Con 600 euro al mese tu aiuti davvero un’attività? Non va bene. Secondo me l’esempio dell’Intermittenza in Francia è IL modello ideale da adottare, in grado di tutelare veramente i lavoratori di questo settore.


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Mi spieghi meglio in che consiste e come funziona?

L’Intermittenza è un sistema usato in Francia per supportare economicamente i lavoratori del mondo dello spettacolo. Il nome viene proprio dalla natura del lavoro in questo settore, considerando che spesso si alternano fasi di impiego a periodi di disoccupazione. Si è sviluppato tra gli anni Sessanta e Settanta, ma è negli anni Ottanta che si è avuta una diffusione più ampia, grazie al ministro della cultura Jacques Lang. Con l’intermittenza, i lavoratori di questo settore ricevono un contributo dallo Stato per i periodi in cui non lavorano. C’è un tetto massimo di giorni all’anno (243) per lavoratore che lo Stato finanzia. Se poi però nel periodo dichiarato di disoccupazione si riceve un incarico – e quindi uno stipendio – le giornate in cui si è lavorato vengono detratte dall’indennizzo statale.

In questo modo sei stimolato a fare tutto alla luce del sole, perché sai che hai delle tutele nel caso non riesci a lavorare per un tot numero di giorni ed è veramente un grande aiuto. Un aiuto che, tra l’altro, non direi “a fondo perduto”, perché – come dice sempre il mio amico e giornalista francese a Brescia Jean Luc Stote, di Radio Onda d’Urto – se tu contribuisci ad aiutare i lavoratori della musica poi loro possono fare con serenità quel tipo di lavoro e non sono costretti ad andare a fare il cameriere, il barista eccetera e quindi ci sarà un posto libero in più per qualcun altro che invece vuole fare il cameriere o il barista.

Restando in tema musica e pandemia: che ne pensi dei concerti in streaming a pagamento e non? Al momento grossomodo mi sembra che si siano fatti 3 tipi di esperimenti: Travis Scott, Nick Cave e quelli in stile evento televisivo in streaming (penso al live del Primo Maggio). Io sono scettico sul fatto che saranno il futuro della musica live, senza dubbio però potrebbero essere uno strumento in più per il settore.

Diciamo che personalmente non sono un grande amante dei live in streaming, ciò non toglie che fatti in una certa maniera possano avere un’attrattiva per un certo tipo di pubblico. Dal mio punto di vista andare ad un live è proprio un’esperienza: essere lì, con le altre persone, sentire le vibrazioni che ti arrivano, quindi per me lo streaming non può sostituire il concerto dal vivo, è un contenuto video. E ci può stare: è un po’ come quando uno si guarda il report del tour, che è un’altra cosa e che riesce a trasmetterti veramente solo un decimo di quello che vivi quando vai a un concerto. Diverso è probabilmente il concetto di quello fatto da Travis Scott su Fortnite e secondo me questo è ancora un altro discorso, legato alla realtà virtuale, ma personalmente in questo momento io non ho un grosso interesse su quel tipo di esperienze. Poi ripeto: se fatte come produzione video possono essere interessanti. Però sul lungo periodo non riesco a vedere la sostenibilità dal punto di vista economico, dato che dovresti far pagare un ticket e onestamente io non lo pagherei dato che mi manca proprio l’esperienza live.

Oltre ad avere ripercussioni significative sull’industria culturale, si pensa che la pandemia potrà accelerare anche altri processi legati al settore digitale. Sto pensando naturalmente all’home working. A Berlino, così come in altre metropoli, affitti alti e gentrification sono una nota piaga. Pensi che l’home working sia una possibile risposta alla gentrification nelle grandi città?

A questo proposito avevo letto un bell’articolo qualche tempo fa sul Berliner Zeitung, scritto da un architetto. Tra le varie ipotesi legate alla diffusione dell’home working diceva che ci sono tante aziende grosse che hanno preso uffici nella parte centrale di Berlino – zone come Friedrichstraße per dire – che se adesso capiscono che ci può essere un maggior uso dell’home office potrebbero lasciare liberi tutti una serie di spazi che poi potrebbero essere usati per vivere quei quartieri in modo diverso. Perché adesso queste sono zone morte, dato che a parte gli uffici non c’è nulla. Quegli edifici magari potrebbero essere trasformati di nuovo in abitazioni o spazi culturali e questa sarebbe la visione positiva della cosa.

Poi l’home office ha sicuramente dei pro e contro. I pro sono dal punto di vista ambientale: è una cosa buona perché non dovendoti muovere puoi risparmiare un sacco di spostamenti. Poi magari qualche lavoratore può scegliere di rimanere nella sua comunità di origine e dove sono i suoi affetti ed il fatto di essere lì può non impedirgli di raggiungere comunque una buona posizione lavorativa. Per quanto riguarda i lati negativi, sul lungo periodo credo che poi ci sia bisogno di trovarsi in un meeting di lavoro faccia a faccia, soprattutto per quanto riguarda la condivisione delle idee. Qui c’è un mio amico tedesco che sta facendo home office da mesi ed è super contento di lavorare da casa perché ha un bimbo molto piccolo, però dice che comunque deve esserci un supporto da parte dello Stato per le famiglie con i bambini, perché è vero che si può lavorare da casa, però poi hai anche bisogno di un tuo spazio. Poi mi diceva che gli manca molto anche il rapporto con i colleghi. Una volta a settimana uscivano a bere una birra e facevano gruppo. D’altra parte, sicuramente per quanto riguarda la gentrification l’home working potrebbe essere un cavallo di Troia interessante.

Parliamo di gentrification. Come si può evitare secondo te un fenomeno del genere? Soprattutto, come si fa a preservare il bello in periferia senza che il centro se ne approfitti? Penso ad artisti come Blu che si sono sentiti costretti a cancellare i loro murales per non far aumentare gli affitti.

Adesso qui a Berlino hanno messo il cosiddetto Mietendeckel, ovvero: deve esserci un tetto agli affitti. Quindi in base a dove hai l’appartamento, quanto è grande, che servizi hai eccetera, il comune stabilisce il tetto massimo per quella casa e grazie a questo provvedimento ci sono parecchie persone che si sono viste abbassare il costo dell’affitto. Questa è senza dubbio la prima cosa che io farei se fossi un sindaco di una grande città. Decidendo il prezzo massimo eviti qualsiasi speculazione. Devono esserci delle tutele, deve essere la politica a dare un freno a questa cosa, altrimenti lasci il via libera alla speculazione. Il libero mercato fatto su un bene di prima necessità come la casa non va bene, perché non stiamo parlando della macchina di lusso, stiamo parlando di un bene primario: fare speculazione su quello è una roba orrenda e la politica deve fare qualcosa. A Berlino questa legge – criticata, da costruttori e  liberali – effetti li sta dando. C’è chi si vede abbassare l’affitto di 100 euro al mese e per una famiglia che fa fatica ad arrivare a fine mese non è poco.

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Sono i locali piccoli a creare l’humus culturale di una città e aiutano gli artisti a fare gavetta. Negli ultimi 10 anni a Berlino tantissimi hanno chiuso.

Nonostante gli affitti alti, Berlino resta senza dubbio una delle metropoli più vivibili e attive dal punto di vista culturale in Europa. Tu ci vivi da dieci anni: cosa ti ha portato lì? Quali sono secondo te i principali pregi e difetti di questa città?

Per quanto riguarda i pregi, c’è sicuramente un’apertura mentale molto ampia e me ne rendo conto spesso. Vedendo alcune cose che succedono in Italia – per esempio in tema di razzismo e omofobia  – posso dire che è molto più difficile che succedano qui. Il che è una cosa molto bella e tangibile. Dal punto di vista culturale poi c’è veramente l’imbarazzo della scelta: nonostante sia molto cambiata negli ultimi anni, c’è ancora una scena che ha un valore, che ha una forza molto grossa.

In quanto a difetti, devo dire che dal 2012/2013 – poi magari chi è arrivato qui prima di me ti dirà la stessa cosa – ho assistito a un cambiamento molto grosso di prezzi e piccole realtà indipendenti costrette a chiudere, appunto, per la gentrification. L’anno scorso ho scritto un articolo per Rumore sui 30 anni dalla caduta del muro ed elencavo anche i locali che hanno chiuso da quando mi sono trasferito qui e sono tantissimi, veramente tanti. Ne sono nati altri sì, ma sicuramente non con la stessa forza. Quindi senz’altro il bilancio è negativo e nel 2020 ci sono meno club del 2019. Dove club significa anche piccoli localini in uno scantinato dove potevi sentire musica a offerta libera. Ecco sono quei posti che iniziano a scarseggiare e quello secondo me è un problema perché poi alla fine l’artista piccolo se non ha quegli spazi lì dov’è che fa gavetta, dov’è che cresce? Quelli sono gli spazi che mancano di più. I posti grandi ci saranno sempre e fanno meno fatica, ma sono quelli piccoli che faticano di più e che però creano l’humus culturale della città e ti permettono di far crescere. 

A parte la gentrification che abbiamo già citato, diciamo che poi ultimamente la città si è riempita molto. La cosa bella dei primi anni è che la città non era molto affollata. Era un po’ più rilassata. Invece adesso lo vedi che c’è molta più gente in giro: anche io qua dalla mia finestra di casa – che è sempre quella perché sono una di quelle poche persone che non ha mai cambiato casa – vedo molto più traffico. Se devi prendere un appuntamento dal medico ci metti molto di più di prima, i mezzi sono molto più pieni, ecco c’è molta più gente rispetto a qualche anno fa. 

Pensi a Berlino e pensi alla musica elettronica, al Berghain, ai club, alla techno. Negli ultimi anni poi abbiamo assistito all’ascesa del rap tedesco. Com’è cambiata secondo te negli ultimi dieci anni la musica dal vivo nella capitale tedesca? C’è una scena o un genere che secondo te sta vivendo un momento particolarmente felice? Locali magari meno noti che vale la pena esplorare?

Diciamo che sicuramente la scena elettronica è ancora quella che a Berlino la fa padrone. È innata nel dna della città e da quel punto di vista Berlino è ancora il top. Poi sicuramente anche il rap ha già da qualche anno un bello spazio, ma la verità è che qui ogni nicchia ha i suoi posti di riferimento e trovi di tutto. Per dire, se ti piace il punk – che è una nicchia in questo periodo storico – Berlino ha ancora una scena punk molto attiva. Negli ultimi anni si era poi creata una bella scena di world music miscelata con l’elettronica, tipo elettrocumbia e cose simili. Facevano parecchie serate allo Yaam, al Gretchen… Anche per la scena in cui ultimamente sto lavorando di più io, che è quella neo-classica, ci sono parecchi locali.

Tu hai portato diversi artisti italiani a Berlino con la Megaherz Agency, penso per esempio al festival della Woodworm. Come si organizza un evento del genere in terra straniera? Il target resta il pubblico italiano? Come si possono coinvolgere anche gli ascoltatori non italiani?

Negli anni sono riuscito a farmi qui una buona base di contatti nella comunità italiana e questo sicuramente aiuta nella diffusione della comunicazione, grazie anche ai media italo-berlinesi che ci sono e con cui collaboro spesso. In quanto all’audience: chiaramente se si canta in italiano la maggior parte del pubblico è formato dalla comunità italiana. Poi ci sono stati casi in cui veniva fatta promozione sull’artista qui in Germania – dalla casa discografica piuttosto che dal management – e quindi c’erano già delle basi sul pubblico tedesco, perché è difficile con una sola data far venire un pubblico tedesco se le persone non ti conoscono. Questo è stato il caso dei Calibro 35 – con cui ho lavorato le prime due volte che sono venuti qui – dei Julie’s Haircut o dei Mellow Mood. Soprattutto al live dei Mellow Mood c’era tantissima gente tedesca. Erano quasi di più degli italiani. Ad esempio con Carmen Consoli anche c’erano molti tedeschi. Non così tanti, ma c’erano, perché lei aveva fatto promozione qualche anno prima.


Fantastico perché a quel live dei Mellow Mood a Berlino c’ero anche io e avevo avuto proprio l’impressione di vedere un pubblico eterogeneo, non solo expat italiani insomma. Merito della promozione, dici?

La promozione è fondamentale: mi capita spesso che mi scrivono band medio-piccole che vorrebbero suonare a Berlino e io dico sempre che potrei anche metterla in piedi una serata, ma poi se non viene nessuno perdo tempo sia io che loro. Quindi la base è: se vuoi puntare su questo Paese allora bisogna investire un po’ di soldi per una promozione qui, per far girare il nome qui, in modo che poi sei in grado di realizzare un piccolo tour, così la volta dopo che torni riesci a creare anche una fanbase non solo italiana. I concerti dove viene solo il pubblico italiano sono di artisti grossi – prendi Calcutta che ho organizzato lo scorso dicembre – dove lì non ho bisogno per riempire il locale di fare la promo sul pubblico tedesco. Poi secondo me non fare la promo è comunque un’occasione persa, perché se tu in quell’occasione fai promo, un artista come Calcutta potrebbe funzionare tranquillamente anche all’estero. La data di Calcutta è andata alla grande solo con gli italiani, però appunto: dato che fai una data così che sai che andrà bene dico: perché non spingerla anche su un pubblico non italiano?

Tra l’altro secondo me il limite della lingua ce lo poniamo spesso noi: si può tranquillamente cantare in italiano all’estero e costruirsi un seguito internazionale. È più difficile, mi rendo conto, ma si può fare.

Assolutamente, anzi ti faccio un caso che cito spesso: Riccione dei Thegiornalisti è un pezzo che qui in Germania poteva spaccare tutto. Ha tutte le caratteristiche giuste: un po’ macchietta quasi, con le corse in spiaggia, l’estate in Italia… Poi per dire – e per cambiare ambito completamente – qui poteva funzionare benissimo anche uno come Cosmo che fa una roba più elettronica, quasi techno. Stesso discorso: anche lui ha suonato ed è andata molto bene, ma c’erano solo italiani. 

Ultima domanda: da fan del vinile la Germania è una specie di paradiso, anche per i dischi di artisti italiani. Negozio di dischi da non perdere e Berlino?

Guarda ce ne sono veramente tanti, solo qui nel mio quartiere – Friedrichshain – ce ne sono un sacco. Due molto carini sono Space Hall e OYE, poi per gli amanti della techno e dell’elettronica c’è Hard Wax.